G. Abram

sculture, dipinti, disegni

 

Di Piergiuseppe Magoni

Un artista valtellinese

G.ABRAM, alias Giuseppe Abramini, di Delebio, è uno dei più forti e sicuri artisti valtellinesi, uno dei più simpatici, oltre tutto.
Dello scultore, Abram ha il physique du rôle: alto, robusto, viso determinato e luminoso, grandi mani, può lavorare come un fabbro nella fucina, a contatto con il fuoco e con i metalli roventi, può manipolare la materia, rivoltare la terra, accatastare legni, scavarli con scalpelli e sgorbie, e andare avanti per ore , nella foga del lavoro, senza accusare fatica, senza perdere concentrazione. Sono elementi connaturati nel mestiere. Mario Negri era così.
Il grande, schivo artista valtellinese, l'amico mai dimenticato, passava ore continue nell'atelier, plasmando le grandi forme in gesso, raschiandole, preparandole per il gra balzo nel fuoco di fusione. Aveva un fisico che sembrava modellato nella forma di un ideale immaginario, di un eletto, di un nunzio dello spirito; e le sue opere si plasmarono nella sacralità della forma della tradizione , dei valori consolidati e perenni. Le sue mani fecero statue come lari, come dei della casa, innalzati su stele, offerte come ostensori all'adorazione. C'era una stretta corrispondenza (una necessità) tra l'uomo, la sua fierezza, la sua nobiltà e l'opera, quasi a confermare quel che lo stesso Negri scriveva nel 1958: "C'è sempre qualcosa di antico nelle mani degli uomini che cercano una forma e non so se maggior orgoglio derivi allo scultore nel perpetuare nel tempo, con acqua e terra, un'aspirazione remota come i primi uomini, oppure dal cercare a questa aspirazione vie nuove".
Anche qui, in Abram, l'opera è riflesso della vitalità serena, da patriarca, limpida e dell'ampiezza gestuale dell'autore. Ricordo un'altra perfetta corrispondenza, anche se non una puntuale presenza di physique du rôle: Alberto Giacometti, il sommo artista che poteva ben rappresentare lo scrittore, il poeta più che il manipolatore di terra. Era minuto, scavato, tormentato, vivissimo negli occhi: il suo corpo era la sua prima scultura, l'origine di tutte le figure macerate, esili e raggrumate, ombre di chi sta nella giornata della vita. Lo scultore conserva una traccia della primigenia semplicità dell'uomo, il sentire la terra e l'acqua, manipolare il fango, plasmare come un bambino, inconsapevole, creando forme, disfacendo e rifacendo, come Dio, innocente, volendo la vita, il fiato di vita.
Lo scultore, spirito e terra, liberamente orientato a fare, a modellare, vede nascere e sparire forme, volute, cercate o sorte per caso, cerca la materia che non muoia, che sia essa spirito, tenta con la pietra, il legno, il bronzo di dare corpo al fluire intenso, articolato, quasi inconscio, dei riferimenti fantastici, e sa che tutta la sua opera è solo un fare.
In Abram è evidente la prorompente forza del fare, nel ritmo svelto delle forme che si ripetono, si rincorrono in cerchio, dove la fantasia, il sogno, il desiderio s'inverano in dettagli realistici, in particolari anche minuti che si annidano nelle vicende quotidiane: un cagnolino al guinzaglio di una ninfa, simbolo di ogni femminilità desiderata, uno struzzo che reclama le sue penne strappate dalla vanità femminile.
Nel solco della tradizione lombarda genuina, nell'esplosione di un "istinto concretamente rustico e popolare" (parole di De Micheli su Manzù), Abram ha raggiunto sicura maturità espressiva e operativa, è"naturalmente" scultore perché sa cogliere, con l'infallibilità della mano, i valori plastici che realizzano la verità delle cose. Coralmente inserito nella natura, propone nei dati figurativi della miglior tradizione plastica del '900, la poetica del positivo, dei valori morali e religiosi dell'esistenza. Con gusto sicuro, con felicità inventiva, con notevoli capacità manuali, modella le figure che meglio esprimono la sua verità: la donna e gli animali, un bestiario che vede in primo piano il cavallo e il toro.
Fino a pochi mesi fa, prima che un bronzo troppo duro gli facesse saltare il forno, Abram poteva curare personalmente la fusione dei pezzi piccoli e medi, controllare che il ruscello di metallo fuso entrasse con continuità nei blocchi di argilla che imprigionavano i modelli di cera, fino ad occupare ogni vuoto, ogni anfratto; e poi poteva avere la soddisfazione di spaccare l'involucro di terra cotta e veder balzare alla luce le statue, pulirle, patinarle, dar loro i riflessi fino a condurli alla dimensione di una vita propria, autonoma. Ora deve portare tutto in fonderia e gli piace meno, ma non tarderà a farsi, artigianalmente come il primo, un nuovo forno. Non per questo si ferma la vena creativa.
Nella forma piana del nudo femminile, appena enfatizzata, e, se pur meno frequentemente, del nudo maschile, vigoroso come se uscisse dalle mani del creatore, Abram esprime la serena, energica adesione alla natura, nella sua più terrena dimensione, nella gioia della sensualità, nell'ironia di attimi sorprendenti, nell'invenzione di una "madre degenere che batte il figlio con un'aringa o una ninfa che passeggia con un centauro sotto la pioggia, con un ombrello aperto".
L'immagine del centauro, ricorrente, è il segno della sovrumana vitalità inseguita come un sogno dall'artista, come il mito capace di vincere lo sfacelo della carne, il mito di un'arte che supera la vita. E quando le mani di Abram afferrano un cavallo, lo rovesciano, lo fanno piroettare, scalciare, impennare come un'iraddiddio, o afferrano per le corna un toro che si punta, freme, s'inarca e sembra voler fare a pezzettini il mondo intero, o quando fa correr un leone fiero, baldanzoso, sicuro di sé e gli fa circolare il vento sulla criniera, o quando accarezza il pelo maculato del leopardo e lo lancia all'inseguimento della gazzella, il bronzo si fa docile, si fa schiavo dell'uomo, della sua volontà, per la sua prova di potenza, e da materia si fa creatura, cosa nuova. A questo Abram, al suo fantastico mondo inesauribile, oggi è possibile tutto, sia per vigore e maturità creativa sia per abilità tecnica, in totale libertà di cammino.