G. Abram

sculture, dipinti, disegni

 

Di Romeo Lucioni

Omaggio a G.Abram

Ho davanti a me una statuetta, opera di quel grande artista che si cela dietro la "sembianza" di G.ABRAM (sembianza espressione di un "grande uomo" che si cela in Giuseppe Abramini), ma forse dovrei dire che "ho tra le mani" quest'immagine di danzatrice che, girando, plasticamente si staglia occupando prepotentemente lo spazio, assumendo (cioè facendo propria) quella plasticità che è l'essenza d'ogni essere vivente o, meglio, pensante.
Seguendo le volute "impossibili" del bronzo, mi sovviene l'impressione vivace e decisa che trasmettono sia la forma, o dimensione somatica, che lo sguardo di questo artista che lascia, oltre che nella materia (preferibilmente il bronzo), anche nel nostro schema percettivo una "sensazione" indelebile. Sono proprio le sue parole, il suo linguaggio, il suo muoversi, il suo espressionistico "dibattere" sulla molteplicità dei sentimenti, delle credenze; sulla variabilità delle sensazioni e degli affetti; sull'impossibilità di concepire un pensiero se non come sintesi di contrari che emergono dall'osservazione di questa statuetta e dalla rievocazione di tante opere, piccole o grandi, ma tutte intensamente vitali, appena ammirate nell'esposizione ritualmente annuale, che ravviva le "molli" estati di Bormio.

Ricordo la plasticità e la "ritmicità" della "caduta" che frena l'impeto e l'incontenibile forza di quel cavallo lanciato nella più frenetica corsa; la dimensione, mitica nel suo divenire, di "Apollo e Dafne"; l'eleganza delle "bagnanti" che giocano con la palla; l'estasi del bambino che trattiene negli occhi, oltre che nello specchio, l'effigie della mamma che trasuda quel narcisistico senso del bello che accomuna tutte quelle opere che vorticosamente mi circondavano poco fa.

Rievocando tante sensazioni rincorse dalle parole-spiegazioni dell'artista, è come immaginarsi nel mondo della mente e capire "la verità" insieme con G. Abram.

Il suo nome evoca, emblematicamente, l'immagine mitica e metaforica del viaggio che è sempre una ricerca intima e profonda di quello che per la filosofia greca è stata l'estetica: bellezza, verità, giustizia e universalità.

Negli occhi dell'artista brilla costantemente quella che è ricerca o desiderio di scoprire tutto o di "trattenere tutto" in un'immagine come fosse un "Alef" (ricordo enigmatico di Borges) dal quale estrarre, come da una divina cornucopia, ogni espressione, ogni dimensione, ogni sfumatura della mente.

In Abram, nel movimento, nella molteplicità, nella plasticità c'è forse una ricerca onnipotente di scoprire ogni perché, insieme con ogni verità e questo avvicina le sue opere a quelle dei Grandi:

Rodin, prima di tutto, nella sua smaniosa ricerca della "totalità" del pensiero, della ricerca cosciente ed intelligente del significato dell'essere uomo;

Michelangelo, nella sua quasi certezza di avere raggiunto la capacità di rappresentare la complessità dell'espressione formale per cominciare, novello creatore, ad insufflare nella materia "lo spirito" ("... ed ora, parla!");

Antonio Pujia, combattuto nella molteplicità dei sentimenti e nella conflittualità dell'anima;

Henry Moore, "immenso" nella sua ricerca dello spazio vitale e plastico d'ogni immagine emblematica.

In G. Abram si respira però qualcosa che è nostro, direi quasi popolare, che racchiude in se la sensazione di una onnipotenza istintiva, quel senso di se che permea la struttura di un Io integrato che ci permette di navigare fra la complessità e la casualità che dominano l'esistenza dell'uomo moderno e la sua quotidianità. Forse è proprio nell'immagine grafica di Paolo e Francesca, insieme alla veemenza dei cavalli lanciati in una frenetica corsa o in un rampante scagliarsi contro il cielo che si configura meglio quello spirito d'istintività, di primordialità e, così, di verità che scopriamo nell'osservare, una dopo l'altra, ossessivamente, facendole ruotare tra le mani queste opere che sono ormai diventate, in noi, figurazioni mitiche scoperte, un po' per caso, nell' atmosfera di una Bormio, tiepidamente accoccolata tra montagne tanto familiari da contenere parte della "nostra storia".

"Leggere" le opere di G. Abram è quasi una scoperta epistemologica della realtà, è tuffarsi nella gnosi e scoprire il senso profondo dell'eutonia, la verità della bioenergetica, la complessità della ricostruzione catartica di una seduta psicoanalitica, la dimensione improbabile del conoscere attraverso l'intelligente accostamento di simboli, la ricerca olistica della Biodanza, la profondità sacralizzata di una esoterica ricerca della verità, la struggente impressione di aver scoperto il senso della vita, dei miti, degli archetipi.

La ricerca emblematica che fa G. Abram dei misteri dell'uomo e della donna, il suo desiderio di accostarsi al "bello", l'inesorabile certezza di poter coagulare nelle sue opere la verità trasudano dalle sculture, ma ancor più dalle parole, dagli sguardi, dai gesti ampollosi di un artista che, nel suo valore, lascia una impronta indelebile nella memoria visiva e, soprattutto, nell'animo di chi l'ha ammirato ed "amato".